Il National Center for Missing & Exploited Children (NCMEC), associazione non governativa con base negli Stati Uniti, nel 2018 ha dato il via a un’indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Firenze, e coordinata dal Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia online della Polizia Postale, attraverso delle segnalazioni raccolte nel web. Gli indagati, secondo gli investigatori, si scambiavano materiale pedopornografico e video di minori adescati in internet. Nell’ambito della stessa indagine, sono state effettuate perquisizioni in molte regioni italiane, tra cui l’Umbria. A capo del “giro”, fu individuata la figura di un quarantottenne toscano, arrestato in flagranza, che era in possesso, oltre a migliaia di immagini di minori depredate su Facebook, anche di video amatoriali, registrati sulle spiagge del litorale toscano, a insaputa dei minori stessi, e dei loro genitori.
La pedofilia è una piaga che è sempre esistita, ma che a causa dell’avvento dei social, e della superficialità di moltissimi genitori, ha trovato nuove spire su cui diffondersi e proliferare.
Quotidianamente assistiamo alla condivisione di fotografie e video con bambini protagonisti, ci fanno sorridere, ci destano tenerezza, e mentre noi ci emozioniamo pensando alla sacralità di questo universo incantato, contemporaneamente, tra noi ci sono persone, che osservando la stessa meraviglia, e sfogliando gli stessi file, provano impulsi totalmente diversi. Una ricerca ha stabilito, che esistono soggetti che ancora non sono consapevoli della loro parafilia, e che salvano immagini e video di minori, senza dare una spiegazione al loro comportamento. Si è tentati di allontanare questa idea, perché è talmente abominevole, da non riuscire a trovare uno spazio nella nostra vita. Sono risalenti all’estate scorsa, le agghiaccianti notizie provenienti dal deep web, che vedevano coinvolti bambini abusati fisicamente e sessualmente, da un boia in real-time, dietro compensi in bit-coin da parte di utenti, tra cui alcuni minori italiani, che decidevano, a migliaia di km di distanza dagli scantinati degli orrori, il tipo di tortura da infliggere alle vittime, torture tutte culminate con la morte dei bambini. Una notizia straziante, che ha sconvolto l’opinione pubblica, e ha convinto moltissimi attivisti, a impegnarsi seriamente per portare avanti due sfide: regolare da un lato, l’utilizzo dei social da parte dei minori, e dall’altro, riconoscere ai bambini, il diritto di non apparire nei social senza il loro consenso.
Sfida che sarà infinita, perché molti non vedranno alcuna relazione tra i fatti accaduti l’estate scorsa nel deep-web, e le immagini dei propri figli condivise nei social, e perigliosa, perché i primi a dare in pasto i loro bambini da usare nei più disparati modi, sono gli stessi genitori.
Nel 2007, anno in cui risale la mia iscrizione su Facebook, era impensabile che qualcuno potesse condividere l’ecografia del proprio feto, le prime foto degli attimi post-parto, del primo bagnetto, della prima pappa, dei primi passi, del primo compleanno. Era impensabile che qualcuno, potesse avvertire come “normale”, condividere interi album della propria vita privata, in un canale che metteva questi contenuti, a disposizione di tutti. Insomma, io m’inalberavo quando mia madre mostrava le mie foto alle sue amiche, amiche reali, in una situazione protetta, fotografie che non potevano essere in alcun modo salvate, duplicate, contraffatte, o condivise esternamente con altre persone, e mi chiedo, se fossi una dodicenne oggi, constatando la mole di immagini e video, condivisi nei social senza il mio consenso, e ben prima che io nascessi, quale sarebbe il mio stato d’animo?
Forse sarebbe del tutto “normale”, dopotutto, le peggiori nefandezze vengono portate avanti al grido di “così fan tutti”, e se Chiara Ferragni, con il tripudio dei suoi milioni di follower, posta ogni giorno decine di foto di suo figlio, perché Emanuela da Cagliari, per emulare il suo idolo, dovrebbe temere pericoli nell’esporre le immagini di un bambino?
Forse la domanda che dovremmo davvero porci è: perché crediamo che i bambini siano una nostra proprietà?
Perché li spogliamo dei loro diritti, e solo per raccogliere una manciata di like? “I miei figli fanno parte della mia vita”, e in questo Truman Show, che vanta cabine armadio, gioielli, alberghi, opere d’arte e selfie dalla colazione alla buonanotte, in fondo, che male c’è ad esibire anche i figli? Questi bambini nascono nei social, crescono nei social, e fisiologicamente, apprendono che la vita reale passa attraverso uno schermo virtuale, e come evidente, richiedono sempre più prematuramente il possesso di uno smart phone, per diventare finalmente registi, e non più semplici attori, nel cast dei propri genitori. Molti genitori lamentano il cattivo uso che i ragazzi fanno dei social network, ma anche quei genitori critici, cioè dotati ancora della capacità di distinguere il bene dal male, spesso non si rendono conto di dove vadano davvero, quando i loro figli sono sul web. l web offre la panacea di credere che i luoghi in cui lasciamo soli i nostri figli siano sicuri, che le immagini che condividono tra loro siano tra “amici”, ma era proprio dalle loro camerette, con attaccati i poster dei loro cantanti preferiti, che i ragazzini italiani dell’estate scorsa compravano sevizie su altri minori.
Queste non sono realtà lontane da noi, sono tra noi, e dobbiamo prenderne atto.
Viviamo in un mondo veloce, ove il tempo e le tappe sono bruciate a scapito della visibilità, e non si può nemmeno auspicare il medievale provvedimento di isolare i nostri figli, con la speranza di proteggerli da tutte le insidie, ma forse, nemmeno possiamo tollerare di diventare proprio noi, i primi responsabili della loro esposizione più scellerata.
Stiamo davvero proteggendo i nostri figli?
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