Primo Levi è sempre stato molto netto su uno degli aspetti della sua vita professionale: si è sempre considerato un chimico prima di tutto ed uno scrittore per necessità, prima, e per diletto poi.
La sua doppia natura è sempre stata uno dei suo argomenti preferiti, in diverse interviste si era definito un “centauro” la creatura mitologica che incarnava le qualità più contrastanti degli esseri umani: il raziocinio estremo e le passioni più selvagge. Certamente Primo Levi, come traspare dalle suo opere, ci appare senz’altro più incline alla prima di queste qualità, ma non certo perché la sua vita sia stata priva di passione. Primo Levi, dunque, si è quasi sempre rifiutato di definirsi uno scrittore, salvo forse quando la pensione gli ha fornito un distacco, almeno di natura “pratica”, dalle incombenze di natura chimico-professionale. Durante gli anni del lavoro in fabbrica, con la sua inflessibile etica del lavoro, mai si sarebbe permesso di scrivere durante le ore lavorative e allora lo faceva alla sera, a casa sua in Corso Re Umberto 75, o la domenica, confermando la sua autodefinizione di “scrittore non scrittore”, letteralmente uno “scrittore della domenica”. Come riconosciuto dall’autore stesso, probabilmente Levi non sarebbe diventato uno scrittore senza l’esperienza di Auschwitz: è stato l’impulso irrefrenabile, sentito da diversi sopravvissuti, di dover raccontare e di dover testimoniare al mondo quanto era accaduto. Un sogno, comune a molti dei (pochissimi) sopravvissuti alla macchina di annientamento nazista, era quello di tornare e non essere creduti o, forse peggio, non essere nemmeno ascoltati. E Primo Levi ha senz’altro assolto a quello che sentiva come un bisogno e un dovere, anche nei riguardi dei suoi compagni che non ce l’avevano fatta, con i suoi due libri di testimonianza diretta: Se questo è un uomo e La tregua. La sua opera di testimone continuerà durante tutta la vita, con i suoi innumerevoli interventi nelle scuole (non rifiutava mai un invito), le sue interviste ed un’altra opera fondamentale, I sommersi e i salvati. Primo Levi è stato uno scrittore prolifico e, oltre alla sua immortale testimonianza della Shoah, ci ha lasciato un’enorme mole di spunti di riflessione sulla natura profonda dell’animo umano, sulla scienza, la tecnologia e l’uso che facciamo di queste ultime; in numerosi racconti si è anche dilettato ad utilizzare proficuamente il genere fantascientifico per regalarci, sotto un’altra veste, il suo sguardo di uomo curioso delle cose del mondo come nei racconti di Storie naturali (1966) e Vizio di forma (1971).
Il Nostro si è sempre definito un “tecnologo” riguardo la sua professione di chimico industriale, ma in tutta la sua produzione letteraria, specie quando parla (e non è raro) di scienza e tecnologia, non lo fa mai in maniera arida ma sempre relazionandole alla nostra vita e, spesso, ne fa una metafora della vita stessa quando non, addirittura, una fonte di ispirazione morale. Va però osservato che Primo Levi si è sempre rifiutato di essere considerato un maestro e meno che mai un profeta dei nostri tempi; il ruolo che, fin dalla scrittura di Se questo è un uomo, ha sempre riconosciuto come proprio è quello di testimone e di osservatore, per quanto possibile imparziale, scientifico appunto, della condizione umana. Probabilmente, per quanto sia difficile analizzare a posteriori le motivazioni e, ancor di più, i sentimenti di qualcun altro, il rifiuto di Primo Levi di considerarsi uno scrittore a tutti gli effetti era anche dovuto alla sua estrema timidezza e al fatto di essere diventato, quando il successo delle sue opere esplose, a tutti gli effetti un personaggio pubblico. Il suo rifiuto dell’etichetta di scrittore rientrava, in quel caso, nella sua strategia di sottrazione ai riflettori e alla fama. Inoltre, perché no, Primo Levi è stato sempre orgoglioso di affermare di essere un chimico e (ma lui avrebbe rifiutato probabilmente anche questa definizione) uno scienziato. Un grande scienziato, aggiungo io. Mi piace ricordare come Il Sistema Periodico di Primo Levi sia stato dichiarato nel 2006 dalla prestigiosa Royal Institution “il miglior libro scientifico di tutti i tempi”, una definizione che lo stesso autore avrebbe trovato quantomeno ingombrante ma, pur tuttavia, letteralmente vera per moltissimi scienziati e persone comuni che, perdendosi in quelle pagine, sono state ispirate a perseguire una carriera scientifica o semplicemente ad amare la scienza. Mi piace citare le parole di Saul Bellow (Premio Nobel per la letteratura nel 1976): “Tutto in questo libro è essenziale, meravigliosamente puro…”.
Molte sono le personalità, non solo del mondo letterario ma anche di quello scientifico a tutti gli effetti, che hanno riconosciuto la grandezza dello scrittore torinese, tanto da affermare, come Rita Levi Montalcini, che avrebbe meritato l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura. Se mi è concessa una nota personale, ricordo sempre con piacere i due o tre giorni (e notti) in cui, molti anni fa, lessi per la prima volta, su consiglio di un amico (chimico), quello che è diventato uno dei miei due libri preferiti di ogni tempo e fonte di buona parte delle mie citazioni. Il titolo di questo articolo si riferisce ad uno di quelli che avrebbero potuto identificare un’ulteriore, incompiuta e mai pubblicata, opera di Primo Levi di ispirazione chimico/scientifica, ne parla Carole Angier nella sua biografia dell’autore. Ed è proprio il tema della duplicità che si ripropone continuamente nella vita di Levi, sospeso tra l’estremo riserbo della sua vita privata e la testimonianza pubblica, tra il mestiere di chimico e quello di scrittore, fino ad arrivare ai suoi conflitti interiori, per certi versi comuni a qualsiasi essere umano.
Quando penso a Primo Levi mentre scrive le pagine che ho tanto amato, mi piace immaginarlo alla sua scrivania, nella sua casa torinese di corso Re Umberto 75 dove ha vissuto per tutta la vita, magari mentre termina una delle pagine più poetiche mai scritte a proposito della chimica, il racconto Carbonio de Il Sistema Periodico concludendo con un punto, come questo che sto per mettere io alla fine della frase.
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