Il racconto di Dejen

by Feb 19, 2022Memorie e Racconti

Il viaggio per arrivare in Italia, la vita a Spoleto e il ricongiungimento con la famiglia.

Ho incontrato Dejen a Spoleto, dove lui è arrivato nel 2019 come beneficiario del progetto SAI del Comune di Spoleto (Sistema Accoglienza e Integrazione, ex SIPROIMI) gestito dalla cooperativa Il Cerchio. Dejen è nato e cresciuto in Eritrea e nel 2015 ha deciso di andarsene e, dopo tre anni di viaggio, è arrivato in Italia. Di storie come quelle di Dejen, purtroppo, ce ne sono tantissime. Storie che raccontano viaggi difficili e lunghissimi, in condizioni disumane, con persone che decidono sulla vita delle altre seguendo solo la logica del profitto o lasciandosi andare alle più brutali aggressioni. Però quella di Dejen va raccontata perché è una vicenda che, nonostante tutte le sofferenze, porta un messaggio di speranza e positività alle tante persone nella sua stessa condizione. Sono molti gli immigrati che una volta abbandonato il paese d’origine lasciano alle spalle una moglie, un figlio o una figlia, una famiglia. Sono pochi invece quelli che poi riescono a ricongiungersi con i propri cari: Dejen è uno di questi. Ma procediamo per gradi e lasciamo parlare Dejen.

In Eritrea

“Mi ricordo che da piccolo nel tempo libero giocavo molto a calcio in Eritrea, oppure suonavo il kirar (lira a cinque corde, ndr). Quando non giocavo studiavo o aiutavo mio padre nel lavoro. Lui si occupava di vendere la pelle degli animali al mercato locale. Fino a 12 anni sono andato a scuola, ero piuttosto bravo. Una volta finita la scuola è cominciato il servizio militare che poi non è più finito. In Eritrea ogni persona è obbligata a fare l’addestramento militare. Io me la cavavo bene e sono anche riuscito a vincere il concorso per il college, ma perfino all’università le posizioni di vertice sono occupate dai militari. Quindi non mi sono mai sentito veramente libero, anche se andavo bene a scuola e all’università. L’università dovrebbe servire alle persone a trovare la propria strada, invece era solo un modo per il governo per controllare la popolazione. Ogni cosa che facevamo era un obbligo calato dall’alto, così non era possibile avere prospettive future o una speranza. Quando ho terminato gli studi mi hanno rilasciato solo la copia del certificato, il governo si tiene l’originale per paura che le persone lascino l’Eritrea con quell’importante documento. Ho fatto il militare per sette anni, poi al college mi sono specializzato nell’area amministrativa e sono diventato un contabile delle forze navali. Durante questi anni ho chiesto più volte al governo di abbandonare il servizio militare, mia madre era malata e aveva bisogno di assistenza. Loro però non mi hanno mai lasciato fare ciò che volevo, così dopo essermi preso un permesso di ferie, non sono più tornato in servizio. Questo significava anche vivere come un clandestino, in Eritrea i militari sono ovunque e controllano i documenti dei cittadini in qualsiasi occasione. Se vedono che qualcosa non va ti sbattono in prigione. Nel 2015, dopo tutte queste sofferenze, ho deciso di andarmene dal mio paese.”

Il viaggio

“Sono partito da solo lasciando in Eritrea mia moglie e le mie due figlie, che allora avevano 1 e 7 anni. Non sapevo se sarei mai riuscito a rivederle. Già arrivare in Etiopia è stato molto difficile, ci sono soldati lungo tutto il confine e non si fanno alcun problema a sparare. Tutto dipende dalla fortuna e ne ho avuta molta perché sono riuscito a passare anche il confine per il Sudan e poi quello per la Libia. In tutto ci ho messo tre anni, mi sono fermato circa un anno in Etiopia, uno in Sudan e poi l’ultimo in Libia. Ho due fratelli che prima di me hanno lasciato l’Eritrea. Il più grande ora vive in America, grazie a lui ho potuto pagare il viaggio ai trafficanti. Mio fratello ha inviato i soldi in un conto di un trafficante che conoscevo da quando vivevo in Eritrea. Il prezzo era 1200$ per andare dall’Etiopia al Sudan e altri 4000$ per arrivare in Italia. Può capitare spesso che i trafficanti prendano i soldi e poi ne chiedano ancora di più, è gente cattiva e non ci si può fidare di loro. Io ho avuto fortuna. Molti sono costretti a farsi mandare i soldi dai familiari, oppure a vendere la propria casa senza avere la certezza di completare il viaggio. I trafficanti in Libia mi mettevano molta più paura dei militari in Eritrea. Quando sono arrivato in Libia sono finito in galera, dove sono stato preso di mira soprattutto perché sono cristiano e non musulmano. La mia fede cristiana è stata la principale causa delle sofferenze che ho subito. In Libia ero senza cibo, senza un riparo e tutto dipendeva dalla volontà del Signore. In Eritrea almeno non avevo mai sofferto la fame e non avevo problemi economici. Avevo molta paura perché in Libia le milizie e i trafficanti litigavano spesso tra loro e tutti erano armati. Per strada vedevo i bambini giocare con i fucili. La mia fortuna è stata di imbattermi in dei bravi poliziotti libici che mi hanno portato dal personale dell’UNHCR (L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ndr). Volevo raggiungere mio fratello in America, ma in quel momento avrei accettato qualsiasi destinazione che non fosse la Libia. Così nel 2018 grazie all’UNHCR sono arrivato in Italia in aereo con un corridoio umanitario. I soldi che avevo dato ai trafficanti erano ormai andati persi, ma a me è andata bene.”

In Italia

“Tutti mi dicevano di andarmene dall’Italia perché non avrei trovato lavoro. Però non volevo ripartire, dopo la Libia ero molto stanco e sinceramente sono contento di essere in Italia. Il clima italiano mi ricorda quello eritreo, mi ricorda casa. Molti amici mi dicono che in Germania o in Svezia si sta meglio, ma io non riesco a vivere senza il sole. Poi in Italia ho trovato tante persone gentili che mi hanno sempre aiutato, sia ad Empoli, nel progetto dove mi trovavo appena arrivato, sia poi a Spoleto. I mesi che ho passato nel progetto a Spoleto sono stati decisivi, sono riuscito a trovare un lavoro che mi ha permesso di fare il ricongiungimento familiare. Senza lavoro non avrei avuto i soldi per pagare il viaggio alla mia famiglia. Mia moglie mi diceva che voleva venire in Italia subito ma io le continuavo a ripetere di aspettare per la procedura del ricongiungimento. Per lei era difficile da sola con le due bambine. Grazie al progetto ho fatto un tirocinio formativo in un salumificio che poi è diventato il mio attuale lavoro, ormai vivo e lavoro a Spoleto da quasi due anni. Non mi aspettavo di riuscire a trovare un’occupazione e fare il ricongiungimento così velocemente, per questo sono molto grato al progetto SAI. Abbiamo potuto fare il ricongiungimento dall’Etiopia, visto che il governo eritreo non me lo avrebbe permesso. Nel 2020 mia moglie e le mie due bambine sono uscite dall’Eritrea per andare in Etiopia. Sono state in un campo UNHCR e il 3 luglio 2021 sono arrivate con un aereo a Roma, dove ci siamo incontrati dopo 6 anni che non ci vedevamo. Sono cambiate tante cose, avevo lasciato le mie bambine che erano piccole e ora la più grande è una giovane donna. Ho avuto tanti ostacoli e non sono mai stato sicuro che sarei riuscito a rivedere la mia famiglia. Ero un po’emozionato quando ci siamo rivisti. Ora sono molto contento e resterò a Spoleto. Il Signore mi ha aiutato tante volte durante il mio viaggio, sono stato molto fortunato.”

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