Dopo attente valutazioni e confronti, possiamo annunciare il tema del prossimo numero di Chiaroscuro”
“Bene, sono curioso, quale sarà?”
“Il peccato”
“Eh?! Come, il peccato? In che senso, il peccato? Io non ho idea di cosa scrivere, sul peccato”
“E questo è un vero peccato”
Ecco, più o meno l’ultima riunione di redazione è andata così.
Che poi, pensandoci, il non saper cosa scrivere deriva paradossalmente dal fatto che ci sarebbe fin troppo da scrivere. Il peccato è qualcosa che volenti o nolenti ci accompagna da una vita, o almeno accompagna noi della generazione 80. La cosa che in queste settimane mi sono chiesto è se possa esistere la possibilità di scorporare la parola peccato dalla sua connotazione cattolica. Scavando nella memoria, mi sono trovato a ripercorrere la mia prima conoscenza con questa spada di Damocle, e con tutto il bagaglio di sensi di colpa che si è portata dietro negli anni, fino a essere scoperchiato sulla sedia della mia psicanalista (che il lettino è roba da film e io non sono un granché come attore). Secondo mia nonna, fulgido esempio delle nonne di un tempo, quelle che nascevano già vecchie e armate di Rosario e Pronto Antipolvere, il peccato era nell’aria più dei maledetti pioppi a maggio, e più o meno con lo stesso effetto urticante. Il peccato camminava a braccetto col senso di colpa, erano le alabarde spaziali d’un Dio vendicativo e ai limiti dello stalking, una sorta di Godzilla col dito puntato alla Nelson Muntz, col super potere dell’onnipresenza, e quindi ti sgamava pure in bagno col Postalmarket.
Ricordo che, per quanto mi adoperassi a seguire un’infanzia da bravo bambino, moderatamente ubbidiente e rispettoso dei dettami imposti, cadevo irrimediabilmente e quotidianamente nel peccato, quello per cui Gesù piangeva (molto sensibile nonostante l’età, il ragazzo, va detto), quello per cui sarei finito all’Inferno, fustigato da diavoli avvolti di fiamme e comandati da Satana in persona. Tanto che, rimembro ancora manco fossi Silvia, già all’età di quattro anni avevo capito l’antifona e avevo elaborato un sofisticato piano di salvaguardia, consistente nello scavare una buca grandissima dietro al giardino della materna fino ad arrivare all’Inferno, per poterne spegnere le fiamme e uccidere il carceriere. Via il carcere, via la pena. Perché di eliminare il peccato non se ne parlava. Che poi già ai tempi delle elementari cercavo di analizzare i rischi e ponderare le scelte, e ogni volta finivo con l’assolvermi autonomamente da ogni colpa, immaginando che in mezzo a ladri e farabutti poco contasse il mio bisogno di studiare anatomia e riproduzione trafugando giornaletti con gli amici, disertando il Catechismo. Ne parlai perfino col parroco, puntando tutto sulla complicità maschile e confidando in una sua bonaria pacca sulla spalla. Scoprii così che il parroco in realtà era una nonna senza il Pronto Antipolvere. Raschiando ancora il barile dei ricordi, faccio fatica a non cogliere derivazioni religiose nell’idea di peccato. Cosa è peccato? Il concetto è talmente ampio che va dai già menzionati peccati (appunto) di gioventù al togliere il grasso dal prosciutto (“ma che sei matto? Quello è peccato mortale”). Proprio questa caratteristica di potersi adattare a qualunque accadimento lo rende un qualcosa di imprescindibile da noi stessi, gli conferisce quasi una propria autonomia, disegnandolo come un alter ego che condivide i nostri stessi battiti vitali. Metaforicamente, potremmo identificarlo con i bivi non presi, le scelte sbagliate, le sliding doors incontrate. Quelle opzioni scartate che secondo alcune teorie generano mondi paralleli in cui avviene l’esatto contrario. Ecco, forse il peccato si può estrapolare dal retaggio cattolico semplicemente inserendolo in tutti i “Che peccato sia andata così” che incontriamo nella nostra vita.
Quel treno perso all’ultimo minuto, mentre tornavamo indietro a vedere se avevamo chiuso la macchina, il concerto di Leonard Cohen quella sera in cui eravamo lì ad Amsterdam ma non avevamo i soldi per i biglietti e scoprimmo poi che (peccato) era proprio l’ultima occasione in cui avremmo potuto sentirlo dal vivo, o ancora quella schedina non giocata perché non avevamo voglia di uscire e c’era sopra un 12 dei tempi in cui si vinceva parecchio, e le giornate buttate per mantenere l’orgoglio dietro a musi lunghi, e momenti che non tornano e lacrime che non si asciugano, e un abbraccio non dato che ricorderemo per tutta la vita e ci tormenterà coi suoi “ma se”. Sapete che c’è? Che a volte fa bene fermarsi a ripercorrere con la mente la strada fatta, le scelte sbagliate, o anche quelle che erano giuste ma lo abbiamo capito solo dopo, fa bene perdersi un po’ nella malinconia e rimproverarsi degli errori che hanno generato chissà quanti mondi. Fa bene perché non può esistere bene senza male, Lato Chiaro senza Lato Oscuro, Yin senza Yang, innocenza senza peccato. Il peccato forse è proprio ciò che cerchiamo per confrontarci, la nostra realtà specchiata. Anche scriverne diventa terapeutico, tanto che affido al foglio questo mio flusso di pensieri e vado a raccogliere il sole di questa giornata ancora da vivere. Che lasciarla scorrere senza riempirsene sarebbe un peccato.
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