Le nocelle
Gli inglesi le chiamano Cobnuts, ma per me saranno sempre le “nocelle”. Credo di averne mangiate una quintalata nella mia vita. Cobnuts, mi hanno chiesto se le conoscevo, se sapevo pulirle, se ne conoscevo il sapore. Forse dovete chiedere al povero Francesco, il falegname, che aveva una pianta lungo il muretto della strada che da Leggiana, conduce a Casenove. Un chilometro e mezzo di strada tra due paesi piccoli piccoli, con il mezzo un palazzo diroccato dove, dicevano, ci stavano i fantasmi. E dove noi bambinetti di dieci o dodici anni, osavamo andare per vedere se era vero che c’erano i fantasmi. Andavamo su per la salita fino alla porta principale che si apriva a delle stanze buie. Andavamo su quatti quatti come per non farci scoprire e poi, una volta sul ciglio della porta, il coraggio di andare oltre non c’era. Perché su “al palazzaccio”, come veniva chiamato dai vecchi del Paese, c’erano i fantasmi. E a noi veniva sempre un po’ di paura. E scappavamo di corsa giù dalla discesa con il palazzaccio alle nostre spalle che ci guardava minaccioso. Di notte faceva ancora più paura che di giorno. E allora le storie dei fantasmi cominciavano a saltare fuori dalle memorie dei vecchietti seduti al bar di “Richetto” dove anche noi bambini eravamo ammessi al gioco delle carte, briscola e tressette. Sapevamo giocare bene a carte perché altro non c’era. Il pane arrivava dal paese vicino ma, per arrivarci, dovevi prendere la corriera, come la chiamava Nonna. Dopo la fonte era il mio momento. Tutto il giorno a saltare su e giù a giocare come pazzi: a pallone, ping pong, corse in bicicletta, nascondino. E il bagno al fiume, dove nuotavano trote, e i gamberi rossi dal sapore meraviglioso. Le Estati erano magiche perché finalmente non avevo nessun obbligo, niente compiti da fare, niente scuola, niente divisa o grembiule o colletto o fiocco. Potevo vivere selvaggiamente, arrampicarmi sugli alberi a mangiare tutto quello che volevo. Non c’era niente altro che potesse rendermi così felice. E non mi turbava nemmeno il grido disperato di mia nonna che mi diceva:” scendi disgraziata, te me farai muri'” Frutta fresca e, ovviamente le famose nocelle. The Cobnuts. Rigorosamente rubate. Mentre la frutta ce la mangiavamo comodamente seduti sull’albero con i piedi ciondoloni, le nocelle no, quelle dovevamo coglierle e mettercele in tasca. Dovevamo trovare un posto comodo, un bel sasso spianato e un altro per romperle. Correvamo sempre, eravamo tutti sudati, bevevamo dalle fontane e la sera, spesso, arrostivamo le pannocchie rubate dal campo di Ezia e Santina, le due sorelle zitelle del Paese. Ezia ci tirava sempre le ciabatte. Noi scappavamo via di corsa su per la Franca. Tornavamo a casa tutti sbucciati dalle nostre avventure come se avessimo sconfitto cento draghi. Gli inglesi le chiamano Cobnuts, ma per me saranno sempre le “nocelle”. Forse dovete chiedere al povero Francesco, il falegname, che aveva una pianta lungo il muretto della strada. Non credo lui, ne abbia mai mangiata alcuna, almeno fino a quando noi abbiamo trascorso le estati al Paese. Le estati a Leggiana erano magiche perché noi eravamo solo bambini. Eravamo selvaggi, ed eravamo liberi. Cobnuts... Le nocelle… Certo che ne conosco il sapore, era il sapore della libertà.
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