“La vita è un’avventura con un inizio deciso da altri, una fine non voluta da noi, e tanti intermezzi scelti a caso dal caso.”
Da questa meraviglioso concetto espresso dallo storico Roberto Gervaso, cercherò di raccontarvi una storia nella quale l’Umbria, la natura e la fatica saranno il punto focale di tutto quanto.
Ma prima di passare alla parte succosa del racconto, una doverosa riflessione ad un anno di pandemia. Come autore (prima di Direttore Responsabile) amico e fedele sostenitore del progetto Chiaroscuro, nato ormai undici anni fa, mi fa strano rivedere l’album dei ricordi del 2020 e sfogliare soltanto dei salvaschermi con persone in videoconferenza.
Sì, per noi di Chiaroscuro, il più grande rammarico di quest’annata così particolare è quello di non aver avuto la possibilità di abbracciarvi più e più volte, dicendovi grazie per la fiducia riposta in noi in questi dieci anni. Concerti, serate all’aperto in mezzo alla natura, incontri con scrittori e banchetti, erano le cose che avremmo proposto, e realizzato, ma ovviamente conoscete la nostra tenacia, se dopo ancora dieci anni ci troviamo a proporre una rivista cartacea (senza nessuna sponsorizzazione esterna) non vuol dire che queste idee rimarranno nel cassetto del dimenticatoio. Ci ritroveremo senza dubbio e recupereremo il tempo perso.
Tornando invece alla tematica di questo numero voglio proporvi un piccolo resoconto di come ho scoperto, in questo periodo confinato causa Covid-19 nella mia Regione o Comune, dei meravigliosi luoghi a pochi chilometri dal centro della nostra città. Il mio lavoro mi porta a conoscere moltissime persone da fuori Umbria e ogni volta che dico loro la mia regione di appartenenza, all’unisono la risposta è sempre la stessa: “beato te che ti trovi in una terra così magica, piena di natura selvaggia ad un passo da tutto”. In realtà, nonostante fossi un appassionato di montagna ed escursioni, il termine “selvaggio” non l’ho mai vissuto appieno, finché insieme al mio migliore amico di infanzia Simone, con il quale da più di vent’anni condivido avventure di ogni tipo, ho deciso di seguire un gruppo di pazzoidi che prediligono la corsa in montagna rispetto a quella su asfalto.
“Non ce la farò mai”.
“Impossibile fare tutte quelle salite, per di più di corsa, per così tanto tempo”.
Le voci che ronzavano nella mia testa erano quasi sempre queste finché una mattina decisi che era giunto il momento di provare.
“O la va o la spacca”.
Arrivai una fresca mattinata di novembre nel parcheggio proprio sopra l’abazia di Sassovivo, ad aspettarmi Emanuele e Flavio, due veterani della Molon Labe (la mia famiglia sportiva). Quella zona l’ho sempre bazzicata in modo superficiale, conoscevo l’abazia, la zona delle fonti, ma non mi sono mai addentrato nei fitti boschi e nella meravigliosa lecceta che ne circonda il territorio.
“Vedi quella vetta? È la cima del Monte Aguzzo, è un bellissimo percorso, che ne dici di andare fin lassù?”.
Ormai che stavo in gioco non me la sono proprio sentita di tirarmi indietro. Più di due ore all’interno della fitta vegetazione, una sensazione di libertà e assoluta serenità che non provavo da tantissimo. Addentrarci nei percorsi, non conosciuti, ma con gli occhi sempre sulla vetta mi ha fatto riscoprire la voglia di avventurarmi nella mia Regione. L’arrivo in vetta mi ha fatto sentire quasi un provetto alpinista: la mia prima montagna scalata di corsa, per caso poi perché mai avrei pensato di poter godere così tanto della natura “selvaggia” dei nostri luoghi, mi ha aperto letteralmente un mondo.
Si fatica?
Sì tanto.
Si corre sempre?
Non sempre, almeno per quanto mi riguarda. A volte si cammina, ognuno ha la propria andatura e nessuno spinge l’altro ad accelerare o andare più piano. Ci si ferma per fare delle fotografie, per mangiare e rifocillarsi, per chiacchierare con il proprio compagno di come è andata la settimana, le preoccupazioni o le soddisfazioni. Quella prima piccola escursione non mi ha fatto più fermare (tranne per i vari DPCM che ci limitavano le uscite) e ho scoperto che intorno all’abazia di Sassovivo ci sono dei luoghi come Rocca Deli, sentieri con dei nomi anche buffi come Bertini 1,2,3, “Lu capostorno”, I tralicci, La polveriera, Il passo delle capre o i Tre cancelli ed io che sono un fan della Terra di Mezzo, e di tutto ciò che è uscito dalla penna di J.R.R. Tolkien, mi immaginavo una mappa alternativa della nostra area proprio similare a quella dei miei eroi de Il Signore degli Anelli.
Ogni domenica ci si sveglia alle ore 6:30, sia per preparare l’occorrente (zaino, cibo ed acqua) sia per fare una colazione nutriente per i km che si devono percorrere. In tanti ci dicono “ma di domenica mattina, al freddo e al gelo chi ve lo fa fare di correre in montagna?”.
La risposta è proprio nella voglia di scoprire sentieri nuovi, tracciati nuovi, addentrarsi a caso in zone non battute, scoprendo soprattutto parti di te nascoste ormai dalla quotidianità della nostra vita. Non c’è competizione, non c’è tempo, c’è chi è esperto, ed ha km e km percorsi per anni, e chi è alle prime armi, ognuno ha il proprio ritmo e alla prima curva o salita ci si aspetta, anche per ammirare il panorama. Lungo un trail (è questo il termine tecnico) c’è solo la voglia di passare una mattinata insieme ad amici che vogliono immergersi nella natura più incontaminata per sentirsi liberi e lasciarsi andare.
Dopo quella mattina di novembre sono arrivato in cima al Monte Vettore, ho corso sotto la neve, nella zona di Monte Santo Stefano e di Cancelli, il Monte di Pale, l’area della Valnerina e del Subasio, i monti Sibillini e le montagne sopra la palude di Colfiorito, ho corso sotto la pioggia, scoprendo sempre per caso antichi casolari abbandonati, ormai fagocitati dalla natura. La parola “selvaggio” non era più lontana da me e se proprio la vogliamo dire tutta, la parola stessa ci fa ben comprendere l’importanza di vivere esperienze di questo tipo: “selvaggio” per i popoli aborigeni e nativi della Terra significa “essere liberi” ed è proprio la sensazione giusta che racchiude l’anima di tutti coloro che vivono la montagna in questo modo.
Questo mio piccolo racconto non è solo uno spot all’attività fisica e spirituale, ma è un modo per spingerci oltre la nostra confort-zone, pensare che il caso potrebbe rivelare situazioni ben più interessanti di quelle che già conosciamo. Non sappiamo cosa ci aspetta l’indomani, buttarsi in un qualcosa di sconosciuto è rischioso a volte, ma potrebbe rappresentare anche la nostra salvezza. Il trail è una metafora di vita, c’è fatica, sudore, ma c’è soddisfazione se dopo aver preso una strada sconosciuta si arriva comunque in cima alla vetta, perché, come ricorda lo scrittore Paolo Cognetti, “la montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, silenzio tempo e misura”.
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