Cammino in casa, mi manca l’aria, apro le finestre, le richiudo, hanno le bascule, devo esercitare una pressione notevole per chiuderle, il primo caldo primaverile crea una condensa sulle guarnizioni. Ne sbatto una e penso a mio figlio che gioca in soggiorno con gli Hey clay, i pupazzetti che si ottengono ogni venti euro di spesa al supermercato. Sbatto la finestra, la chiudo, una granata, una sirena, una bomba. Compilo l’elenco: i giocattoli, la spesa, venti euro di spesa in un supermercato, banalità impossibili se fuori c’è la guerra. Mio figlio è in soggiorno, ho chiuso la finestra e la finestra non è una bomba. Dove mi nasconderei? Non posso urlare, se ci fosse la guerra mio figlio sarebbe terrorizzato, urlerebbe, piangerebbe, non capirebbe, mi guarderebbe cercando conforto. Non capirebbe solo fino a quando le bombe e gli spari e gli edifici crollati e i morti per strada e i pianti di sua madre, tutti insieme e senza virgole, non diventassero una costante delle nostre giornate, come le favole della buonanotte. Le favole della buonanotte non possono essere raccontate ai bambini che stanno in mezzo alla guerra, in mezzo, non davanti, non dietro.
“Non possiamo passarci sopra, non possiamo passarci sotto, ci dobbiamo passare in mezzo”. Scuole distrutte, giocattoli bruciati, amichetti perduti tra le macerie, o soli, in balia di adulti disperati come loro, che scappano, ma dove, fino a quando, per quanto tempo? Senza cibo, senza acqua, senza vestiti, senza casa, senza cameretta, senza un lettino. Non è mai la paura di morire, forse. È la disperazione di sopravvivere a mio figlio, o peggio, di essere la sola testimone di ferite che non possono essere curate, perché non ci sono medici, ambulanze, ospedali, cerotti, antidolorifici, anestetici, antibiotici. Ci colpiscono lì, dove la morte diventa il male minore. Ogni volta li sento gridare “Dio è grande”, sarà per la fatica di vederlo là in mezzo, la costanza nel volerlo a tutti costi vedere, oppure la tenacia di trascinarlo dove non mette più piede? “Dio è grande, Dio è grande, Dio è grande”, ma poi nella fuga sparano a mio fratello, alla schiena, tre secondi fa stava dicendo qualcosa, da adesso il suo corpo non emetterà mai più suoni, trent’anni insieme sparsi a terra come le biglie con cui giocavamo la domenica mattina, una macchia di sangue che si spande sul cemento di una città fantasma. I rumori della strada prima, quasi nessun rumore dopo, la gomma delle guarnizioni è un isolante, hanno anche i doppi vetri, mio figlio gioca in soggiorno, gioca, e non sa che fuori c’è la guerra, perché la guerra non è sotto casa, è fuori da casa nostra, lontano dalla nostra città, abbastanza lontano da non poterla sentire, abbastanza da non poterla neppure immaginare, la guerra da qui non fa rumore. Provo vergogna, sintomo di una fortuna immeritata, che per gli altri evidentemente è un segno, ma una fortuna capita per caso, anche se il caso non esiste, la fortuna è una moneta che rotea a mezz’aria prima di atterrare sul dorso di una mano, essere nati in un posto, o un altro del mondo.
Sto impazzendo.
No, io non sto impazzendo.
Oltre l’86 % dei bambini in quella terra che sta scomparendo dal planisfero, soffre di Disturbo post traumatico da stress.
Prediligono la solitudine, sviluppano tic nervosi, vivono nel terrore, soffrono d’insonnia, hanno incubi, comportamenti aggressivi.
Alcuni bambini facevano parte di un progetto di riabilitazione con terapeuti specializzati nel disordine post traumatico infantile, stavano facendo enormi progressi: di otto di loro, cinque sono morti nell’ultimo Raid. I terapeuti sono in cura da altri terapeuti, non sanno reagire all’evidenza che, a Gaza, sia possibile perdere cinque su otto piccoli pazienti, in meno di quattro giorni.
L’impotenza.
Raid per noi è solo la marca di un DDT, uno spray per ammazzare gli insetti che ci usurpano qualche angolo di casa. Sono fortunata, siamo fortunati, mio figlio è fortunato, gioca con i suoi Hey Clay in soggiorno e canta. La voce dei bambini è un incantesimo contro il male. I militari durante l’operazione denominata “piombo fuso” hanno ammesso di essersi fatti scudo umano con i bambini, l’hanno negato, dapprima si nega sempre, poi qualcuno avverte la necessità della verità, sperando forse di lavare via la faccia di quella bambina, o di quel bambino, e allora confessa, e altri li seguono, con la stessa speranza.
“Ci siamo fatti scudo con i bambini”. Per scoprire che quegli occhietti terrorizzati, quelle guanciotte morbide e grasse, quelle manine piccole e generose, non si lavano via dalla divisa, nemmeno bruciandola, perché quei piccoli volti che rasentano la perfezione su questa Terra maledetta, sono scolpiti nelle ossa del cranio con uno scalpello, e per liberarsene, non sarà efficace nemmeno tagliarsela quella testa. I bambini quando stanno male chiamano la mamma, quando hanno paura chiamano la mamma. I bambini strattonati per fare scudo agli uomini armati, avranno chiamato la loro mamma. No, non li ho visti quei bambini, però li vedo sempre. Mi pare di vederli, e c’è mio figlio, perché i bambini sono tutti uguali, sono tutti Santi, sono tutti uguali. Una finestra a bascula, una pressione in più, un rumore più maldestro degli altri. Mio figlio si spaventa quando i portoni sbattono alle sue spalle, quando suona la campanella dell’asilo, quando qualcuno preme il citofono, mio figlio sgrana gli occhi e mi cerca, a volte emette un urlo, poi ride, gli fa ridere essersi spaventato per così poco. Cammino dentro casa e penso a loro, ai giornalisti. Quello che leggo è nero ed è impresso sulla carta, quello che non scrivono, quello che omettono, lo vedo scritto in rosso, sottolineato in rosso come un errore.
Tu lo vedi? Lo cogli in mezzo alle parole che fanno rumore, il sibilo di quelle che mancano?
Appare e si dissolve.
I giornalisti.
Io scrivo, e so che mentre si scrive non si parla e non si mente, perché si scrive in silenzio, e ci si concentra su cosa si deve scrivere, e chi scrive sapendo di mentire, senza nemmeno illudersi di essere nel giusto, consapevole di adoperare le parole per propaganda, per lubrificare le articolazioni della belva, dovrebbe pagare questo oltraggio alla vita degli altri, con la propria vita, perché la verità, spesso è appesa al filo di una pagina Word, che non si ha il coraggio d’inviare alla redazione di un giornale. Appesi alle parole che non avete scritto, penzolano i corpi dei sessantasette bambini che non avete tentato di salvare con la verità. Sono solo parole, dite? No, anche se questa è solo una finestra. A bascula, l’ho chiusa energicamente, ho ruotato il braccio di trenta gradi, non è una bomba, non è una molotov, non è un proiettile, il rumore non è nemmeno così forte, ho solo chiuso una finestra, tra poco uscirò con mio figlio, canterà una canzoncina per strada e mi chiederà d’indovinare il titolo, so già che canzone canterà, ma simulerò lo stesso un’espressione stupita.
Usciremo e saluteremo il verduraio, la fioraia e il macellaio, che domani a quest’ora, saranno ancora lì a salutarci indaffarati nelle loro botteghe. Non so cosa voglia dire essere in Palestina in questo preciso istante, ma so che in questo preciso istante, che di preciso ha solo il mio sgomento, chi ha paura anche solo di commettere l’imprudenza di nominare Gaza, per quell’inquietudine tutta borghese della diplomazia che teme la febbre del giudizio, sta abbracciando un fucile, e lo sta puntando alla nuca dei nostri figli.
Guardo la finestra. Nessun rumore dalla strada. Quando muore un bambino, non esiste Peccato più grande del silenzio.
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